Quando guardiamo una fotografia con il soggetto perfettamente nitido e lo sfondo dolcemente sfocato, stiamo osservando un effetto chiamato profondità di campo.
È uno degli strumenti più potenti in fotografia per dirigere l’attenzione e creare atmosfera.
La profondità di campo rappresenta la zona dell’immagine che appare nitida.
Tutto ciò che si trova davanti o dietro a questa zona diventa progressivamente sfocato.
Questo effetto è controllato da vari fattori tecnici, ma anche da scelte creative.
Il primo elemento da considerare è il diaframma dell’obiettivo.
Più il diaframma è aperto (valori f piccoli come f/1.8 o f/2.8), più la profondità di campo diminuisce.
Il soggetto risulta a fuoco, mentre lo sfondo si dissolve in un piacevole sfocato.
Al contrario, con diaframmi chiusi (f/8, f/11 o superiori), tutto appare nitido.
La distanza dal soggetto influisce molto: più ti avvicini, più lo sfondo diventa morbido.
Anche la lunghezza focale ha un ruolo: con obiettivi tele (85 mm, 105 mm, 200 mm) lo sfocato risulta più marcato rispetto ai grandangolari.
Un sensore grande (come nei modelli full frame) crea una sfocatura più evidente rispetto a un sensore piccolo.
Ma non basta: la qualità dello sfocato, detta bokeh, dipende dal design dell’obiettivo e dal numero di lamelle del diaframma.
Un buon bokeh trasforma i punti luce in sfere morbide e armoniose.
Negli smartphone, l’effetto sfocato è spesso simulato via software.
L’intelligenza artificiale isola il soggetto e ricrea digitalmente la profondità di campo.
Il risultato può essere sorprendente, ma non sempre perfetto con capelli, vetri o contorni complessi.
La profondità di campo non è solo una questione tecnica.
È un linguaggio visivo che serve a raccontare: isolare un volto, far emergere un dettaglio, rendere intimo uno scatto.
Imparare a gestirla significa dare alla fotografia la forza di guidare lo sguardo e l’emozione.